• >> Torna al blog

    Antichi Frantoi

    Gli antichi frantoi per la lavorazione delle olive erano allestiti in posti strategici, solitamente ipogei, cioè scavati sotto terra. Il motivo che faceva preferire il frantoio scavato nel sasso a quello costruito a pianterreno era la necessità del calore. L’olio, infatti, diventa solido verso i 6° C. Pertanto, affinché la sua estrazione avvenga, è indispensabile che l’ambiente in cui avviene la spremitura delle olive sia tiepido. Il che poteva essere assicurato solo in un sotterraneo, riscaldato dai grandi fuochi dei camini
    che ardevano notte e giorno, dalla fermentazione delle olive, nonchè dal calore prodotto dalla fatica fisica degli uomini e degli animali da tiro (asini, muli, cavalli).


    Il conferimento delle olive al trappito, per la loro macinatura avveniva dalla strada, perché ai contadini era vietato entrare nei frantoi, dove vi poteveno accedere solo i lavoratori (solitamente 5 con a capo il “Nachiro”). Dalla strada le olive venivano quantificate e riversate nel frantoio attraverso le “SCIAVE”, sorta di camini scavati nella pietra che collegavano la strada al frantoio, le olive venivano ammassate all’interno del frantoio in attesa della loro lavorazione. Al suo turno la partita conferita veniva immessa nella vasca di macinazione o “conca” situata al centro del frantoio; ogni vasca macinava circa sei tomoli di olive corrispondenti a circa 200 chilogrammi.

  • La “conca” svolgeva il lavoro che nei moderni frantoi operano i “frangitori” nel processo detto appunto “frangitura”; essa era formata da un perno centrale abbastanza grande e robusto, a cui vi era collegata la “PETRA TE TRAPPITU” che era un blocco unico di pietra a forma cilindrica che, usata verticalmente sulla pista circolare ricavata nella vasca di frantumazione, serviva allo schiacciamento delle olive.


    Il tutto avveniva con l’aiuto di animali da traino come cavalli, gli asini o i muli. Infatti, al perno centrale, vi era collegato anche una trave di legno, cui all’estremità vi erano attaccati uno, o più cavalli che seguendo un tragitto circolare, giravano attorno alla conca sempre nello stesso verso, favorendo il girare dell’asse centrale, e con essa anche la pietra circolare, che schiacciava le olive.


    Quando la pasta era pronta, i trappitari la raccoglievano tutta da un lato della conca, e riempivano i “fisculi”(fiscoli). Il fiscolo è un doppio disco filtrante saldato ai margini e forato al centro, realizzato in fibra di cocco e cucito a mano. La pasta d’olio si disponeva all’interno del fiscolo.

  • Riempiti i “fisculi” questi venivano portati al “cuonzu”, che è il torchio o pressa, composto da una madre vite su cui scorreva lu “SANTU TUNATU” che era di solito un blocco unico di legno e rappresentando la “testa” della pressione aveva avuto questo nome in onore del Santo protettore di questa parte del corpo umano. Però il nome di detto attrezzo, si dice abbia anche un altro significato, infatti, sul gioco dei doppi significati del termine, pare avesse questo nome in quanto nell’atto della pressione ed al contatto della madrevite, il pezzo cigolava come se tuonasse (in vernacolo si usa il termine “scattava”) e da qui il secondo significato del nome.

     

    Una panchetta di legno chiamata “chiancula” era posta sopra i FISCULI ed utilizzata al loro schiacciamento sotto la pressione della vite del torchio. A volte succedeva che i fisculi sotto la pressione spanciassero perciò si usava la “BARDASCIOLA” che era una leva di legno con la quale il NACHIRU cercava di raddrizzare la colonna dei FISCULI, usandola a mo’ di leva.

  • L’olio che colava dai fiscoli, si raccoglieva alla base del cuonzu, su un blocco pesante di pietra dura detto “derfinu”, che per natura, pendeva leggermente da una parte, la quale aveva una slabbratura (come una macchinetta da caffè), in cui colava l’olio che andava a finire in una vasca detta “Ancilu”, che era una sorta di pila in pietra, internamente cilindrica, nella quale convogliava la spremitura dei torchi, e con al fondo un foro di comunicazione con una cisterna detta NFIERNU. Nel tempo all’ancilu fu applicato un foro laterale dove veniva immessa l’acqua che scendendo al fondo della pila, nella sua risalita fungeva da separatore fra l’olio e l’acqua. L’olio, essendo più leggero dell’acqua saliva in superficie.

     

    Questo processo corrisponde all’attuale processo di estrazione e separazione nei moderni frantoi, questo tipo di estrazione per pressione, consiste nell’estrarre l’olio dalla pasta e far rimanere nei fiscoli la sansa. Alla fine, i fiscoli contenenti ormai solo sansa, venivano lavati per bene, di solito era compito delle donne in quanto lavoro più accurato, e meno pesante degli altri, ma per quanto i fiscoli venivano lavati, e per quanto potevano essere puliti da una mano abile e precisa, nei fiscoli, con il prolungarsi del loro riutilizzo, rimaneva sempre qualche piccolo residuo di sansa, anche per la loro natura, infatti essendo cuciti, le maglie, catturavano piccole parti di sansa nascondendoli, e col prolungarsi del tempo, compromettevano la qualità dell’olio.

  • Una volta svuotata l’acqua e riempita la vasca solo di olio, era possibile procedere alla raccolta da parte del trappitaru che aveva affianco a se tre contenitori ed uno strumento per la racraccolta: per raccogliere l’olio dalla vasca, si usava inizialmente la “litra” unità di misura per quei tempi, che corrisponde agli attuali 2 litri e mezzo, era un contenitore fatto di latta, rassomigliante ad un boccale, ed era costruito dallo “stagnino”, antico mestiere, che si occupava di lavorare tutti i tipi di contenitori metallici, generalmente utensili da cucina, a volte ricostruendoli, o riparandoli con la pratica della lavorazione del rame.


    Dalla litra, veniva versato nell’ostaru che era un contenitore più grande, ed aveva la misura di 5 litre o nel barile, che aveva la misura di 10 litre, i contenitori, servivano da unità di misura per riportare la quantità di olio prodotto, e si sceglieva di riempire ostari o barili, in base all’olio prodotto.

  • Quando con la litra non si poteva più prendere l’olio, perché sparso su tutto il fondale della vasca, vi si raccoglieva con un altro utensile chiamato “mappu”, questo aveva una forma circolare, era un disco metallico, che era leggermente conico.


    Lu mappu, serviva anche quando si prendeva l’olio dalla vasca con la litra per versarlo nel recipiente, questa si poneva di sotto, in modo tale che se scolava un po’ di olio dalla litra, gocciolava sulla piattina, recuperando quel poco di olio, ed evitando di sporcare.


    Sul fondale della vasca (l’ancilu) vi era un buco, inizialmente tappato con uno straccio o tutto ciò che poteva fungere da tappo (legno, sughero, legno ricoperto da straccio ecc…), dove alla fine dell’operazione di raccolta, questo veniva rimosso.

  • La vasca, veniva pulita, e i residui e l’acqua uscivano dal buco stappato, e proseguivano verso un’altra vasca situata leggermente più lontano chiamata Nfiernu, mentre i reflui della lavorazione costituivano la “Sintina”.


    La Sintina, di solito era situata fuori dal frantoio, e abbastanza distante, era coperta da una botola di legno, e per accedervi, vi era una porta con catena e lucchetto, questo per impedire che qualcuno ci cadesse, o si mettesse nei guai.


    Questo metodo, senza dubbio il più naturale di tutti, era quella che oggi chiamiamo “estrazione a freddo”, ovvero l’olio prodotto esce a temperatura naturale, purtroppo, a discapito del tempo: il processo era molto lento, e richiedeva molta forza-lavoro umana e si doveva lavorare giorno e notte, per cercare di mantenere i tempi di produzione.

  • La molitura avveniva a partire del mese di ottobre, e finiva nel mese di marzo. Spesso alcuni agricoltori separavano le “macine”, ovvero ogni volta che andavano a molire il raccolto giornaliero, mettevano il prodotto in contenitori separati, così facendo, tenevano quello buono per loro e rivendendo quello di qualità inferiore.


    Alcuni agricoltori invece, spesso famiglie proprietari di uliveti, o piccole imprese familiari, raccoglievano le olive, e non le portavano subito a molire, ma le lasciavano seccare in un magazzino, dove seccando si andava a perdere quel prodotto in eccesso che andava a formare la sansa, ottenendo quindi una produzione più elevata, a discapito dell’acidità, e quindi, iniziando una molitura di un prodotto già qualitativamente inferiore.


LEGGI L'INFORMATIVA SULLA PRIVACY

Dichiaro di aver letto l'informativa ed esprimo il mio consenso al trattamento dei dati
SI NO